Pubblichiamo il testo dell’intervento di Piero Santonastaso, giornalista che da tempo collabora con Rete Iside e che ha fatto parte della giuria del concorso fotografico Obiettivo lavoroINsicurezza, insieme a Tano D’Amico e Cinzia della Porta.
La premiazione del contest si è ternuta venerdì 22 settembre presso la sala biblioteca dell’Inail, con la partecipazione, sia dal vivo che da remoto, dei sei autori delle foto vincitrici ex aequo e l’esposizione delle fotografie finaliste.
L’intervento di Piero è carico di significato e porta dati utilissimi per comprendere il fenomeno delle morti di lavoro nel nostro Paese oggi, rappresentano una vivida denuncia di come, in Italia, di questi avvenimenti si voglia parlare e scrivere ben poco: solo alcuni casi, infatti, hanno avuto il giusto risalto sui media mainstream.
Ci ricorda quanto è importante dotarsi di strumenti legislativi adeguati, come è anche il reato di omicidio e lesioni gravi e gravissime sul lavoro per la cui introduzione Rete Iside, insieme ad Unione Sindacale di Base e altre realtà, è promotrice di una legge di iniziativa popolare.
di Piero Santonastaso
“Ci sono persone che ogni mattina non vanno al lavoro, vanno al patibolo”, ha detto Maria Di Lena, sindaco di Palata (CB) il paese di Gianluca De Santis, morto a 44 anni nello scoppio di Casalbordino che il 13 settembre ha fatto 3 vittime alla Esplodenti Sabino. Complicata la ricomposizione delle salme: infatti i funerali di Gianluca si sono tenuti il 23 settembre, 10 giorni dopo lo scoppio alla Esplodenti Sabino; quelli di Fernando Di Nella il giorno prima, ma la famiglia di Giulio Romano dovrà attendere il completamento delle analisi genetiche sui resti straziati.
La frase del sindaco era degna di figurare sulle prime pagine, nei titoli dei tg, su siti e social, invece è passata sotto silenzio. Di lavoro i media parlano poco o nulla, preferendo concentrarsi su borsa e finanza per far contenti gli editori. Perché occorre ricordare che in Italia, diversamente da molti altri paesi, non esiste la figura dell’editore puro: le proprietà dei media hanno invariabilmente altri e più urgenti interessi da coltivare.
Già non si parla di lavoro, dunque, figurarsi se stampa, tv e siti hanno voglia di occuparsi a tempo pieno di vittime e di sicurezza. Argomenti per i quali l’ordine dei giornalisti dovrebbe istituire (e in realtà l’ha fatto, ma è un pro forma), corsi di formazione obbligatori, almeno non saremo più costretti a leggere nei titoli “fabbrica maledetta”. Scriverlo, equivale a sostenere che per fermare la strage di lavoratori occorrano non leggi e controlli, ma esorcisti e stregoni.
Ecco perché le iniziative di Rete Iside sono meritorie ed emergono dal mare di blabla di maniera – politici e sindacati confederali in testa – tutto all’insegna della finta indignazione: “basta”, “intollerabile” (esiste forse un numero di lavoratori morti da considerare tollerabile?), etc., ma il succo è invariabilmente “qualcun altro faccia qualcosa”.
Così le fotografie del concorso “lavoroINsicurezza” sono un eccellente mezzo di denuncia, nonché strumento per portare sotto gli occhi di tutti le orribili realtà vissute quotidianamente nei posti di lavoro. Immagini che affiorano di tanto in tanto dalle prime pagine, ma dipende dai casi: Luana D’Orazio, giovane e bella vittima dell’avidità, ha quasi imposto ai media di riservarle grandi spazi.
I tre operai morti a Casalbordino no, neanche se la fossero andata a cercare: in fondo avevano una certa età e facevano un lavoro pericoloso, no? Morti e dimenticati, quasi come i cinque della strage di Brandizzo, non fosse per il video registrato da Kevin Laganà poco prima di morire e rimbalzato sui social: un coetaneo di Luana, anche lui giovane e bello, quindi spendibile per aumentare readership, audience e click.
Diversamente dal settantottenne – sì, 78 anni e ancora al lavoro come addetto alle pulizie in un magazzino di Prato, un’ora al mattino e una alla sera - morto per un malore, di cui non si riesce a conoscere nemmeno il nome, oscurato per motivi di privacy e per i capricci di questure e prefetture, che spesso e volentieri “nascondono” queste notizie a loro insindacabile giudizio.
Lo denunciava dieci giorni fa Fabrizio Brancoli, direttore del Mattino di Padova: “Una morte sul lavoro non può essere una notizia tardiva”, titolava commentando i 3 giorni di oscuramento della morte di Stefano Moletta, 56 annni, schiacciato nottetempo da un muletto in un magazzino in cui era da solo al lavoro.
Cito dal pezzo di Brancoli: “Vorreste sapere con tre giorni di ritardo che una bomba è esplosa in un edificio, che un terremoto ha squassato una piazza, che un fiume è esondato o che un incendio ha aggredito un quartiere? No; perché certe cose sono talmente gravi da diventare priorità. Una volta rispettata la vera precedenza, cioè la comunicazione ai familiari della vittima, è doveroso che la comunità sia messa a conoscenza di una ferita che la riguarda da vicino. Bisogna dirlo presto e bene, con la serietà, la cura e la sensibilità che servono. Perché anche questo, dei morti del lavoro, è un bombardamento, o un terremoto, che subiamo.
È il crollo di una casa comune, quella del diritto a vivere e della tutela di un assetto fondamentale, in “una Repubblica democratica fondata sul lavoro” come recita il primo articolo della Costituzione, cioè il sipario che si apre sulla nostra democrazia. È qualcosa che meriterebbe ogni sottolineatura, ogni profondità, ogni impegno. E non vogliamo pensare che il problema sia la presenza di un fine settimana, che “rallenterebbe” certi percorsi: sarebbe un affronto alla dignità di una famiglia e al diritto di informazione che tutti dovremmo percepire come fondamentale. […]
Non si vive bene in un mondo che non sente questo bisogno di trasparenza. Dire a tutti che una persona ha perso la vita lavorando non può essere una scelta arbitraria, né una dilazione nel tempo: va detto al più presto, con correttezza e completezza. Stiamo parlando di una piaga enorme. Che nell’atroce frequenza delle tragedie consolida il suo carattere di emergenza reale. Comunicare una morte sul lavoro è doveroso per serissime ragioni formali, legali, giudiziarie e anche giornalistiche. Ma, ancor prima, è una questione di civiltà e di umanità.”
Il merito di “lavoroINsicurezza” è in primis la rivendicazione del diritto a vivere. Esattamente come la proposta di legge di iniziativa popolare per l’introduzione nel codice penale del reato di omicidio sul lavoro e lesioni gravissime sul lavoro.
Ce n’è bisogno, estremo e urgente. Perché nei primi 21 giorni di settembre in Italia sono morti 80 lavoratori – 13 dei quali in itinere - con una media che sfiora i 4 al giorno, un numero che demolisce la vulgata secondo la quale l’Italia conta una media quotidiana di quasi 3 vittime del lavoro.
In 21 giorni Lombardia, Veneto e Campania totalizzano ciascuna 10 vittime, mentre Brescia, la “Leonessa” d’Italia, è la provincia con il maggior numero di morti, ben 6.
Per i comparti, pare di essere rimasti all’Ottocento: 21 morti nell’agricoltura, 12 nell’edilizia, 7 nell’industria e 6 nei trasporti. E all’Ottocento si torna anche leggendo che la vittima più giovane aveva 17 anni. Si chiamava Alfonso Iannotta e la notizia è comparsa solo sulla stampa locale. La più anziana ne aveva 82, le fasce di età più colpite sono 41-50 e 61-70, con 19 vittime (17 tra i 51 e i 60) , ma tra i 71 e gli 80 anni se ne contano ben 7, e basterebbe questo per gridare “fermi tutti!”.
C’è ancora molto da fare, molto da fotografare, molto da firmare.
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Seguono i dati aggiornati al 24 settembre dei decessi di lavoro in Italia
NELL'ANNO: 870 (sul lavoro 673; in itinere 197) media 3,25
REGIONI: Lombardia 121; Campania 887; Veneto 77; Piemonte 63: Lazio 62, Sicilia 57; Emilia Romagna 52; Puglia 51; Toscana, Abruzzo 46; Calabria 44; Marche 33; Friuli Venezia Giulia 26; Sardegna 25; Umbria 19; Liguria 17; Alto Adige, Basilicata 11; Trentino 9; Estero 8; Molise 5; Valle d'Aosta 4.